
Attraverso la città grigia, sradicata dei colori autunnali, con gli occhi dentro il libro della Ortese: un recupero significativo in questi giorni di Sud abbattuto e ucciso, come la norma civile prevede.
La povertà significa orrore, non ha nulla di affascinante, respinge l’anima e condanna gli uomini.
“Una miseria senza più forma, silenziosa come un ragno, disfaceva e rinnovava a modo suo quei miseri tessuti, invischiando sempre più gli strati minimi della plebe, che qui è regina. Straordinario era pensare come, in luogo di diminuire o arrestarsi, la popolazione cresceva, ed estendendosi, sempre più esangue, confondeva terribilmente le idee all’Amministrazione pubblica, mentre gonfiava di strano orgoglio e di più strane speranze il cuore degli ecclesiastici. Qui, il mare non bagnava Napoli. Ero sicura che nessuno lo avesse visto, e lo ricordava. In questa fossa oscurissima, non brillava che il fuoco del sesso, sotto il cielo nero del sovrannaturale”.

Sentendo un vecchio, amato gruppo dopo cinque anni di assenza (loro, non mia) è ritornata improvvisamente la forza di frequentare il blog. Non è andato in disuso, ma attraversa una di quelle parentesi poco felici della sua vita internettiana. Succede, ma basta metterci un po' di lena per recuperare. Nel mezzo è accaduta però una serie di cose. Fuori di qui.
Per esempio: vacanza nella valle d'Itria, nei pressi della sublime, accecante e arroccata cittadina di Ostuni; una visita al Lido, durante la mostra; una proposta di lavoro indecente (per quest'epoca precaria), ma che è stata prontamente rifiutata per non far mancare la mia concreta solidiarietà agli amici (precari come me, come tutti, obviously); dedicati giorni e pensieri all'impegno e alla produzione artigianale di cultura in proprio (che non sono seghe mentali, ma quasi); badato molto alla manutenzione interiore, poco tempo rimasto per le uscite con gli amici e la scrittura, ma che volete, certi vizi sono duri a morire. Pausa.

NASA's Spitzer Space Telescope has imaged a coiled galaxy with an eye-like object at its center, shown in this photograph released by NASA July 23, 2009.
The galaxy, called NGC 1097, is located 50 million light-years away. It is spiral-shaped like our Milky Way, with long, spindly arms of stars. The "eye" at the center of the galaxy is actually a monstrous black hole surrounded by a ring of stars. In this color-coded infrared view from Spitzer, the area around the invisible black hole is blue and the ring of stars, white.

L’autore, mettiamo il caso, entra dentro la sua storia nel momento esatto in cui questa comincia. E parla in prima persona all’interno della trama, di cose che fra l’altro riguardano anche lui oltre che un gruppo di personaggi identificato dal segno “noi”. L’ambiente è un interno-giorno, forse un comune salotto: l’autore inizia a parlare con un personaggio che si trova lì in casa e gli spiega cosa sta per succedere, a grandi linee (o forse no, si raccontano, i due, qualche fatto loro del passato). Infine il responsabile ultimo della storia lascia la stanza. Chiude la porta e lascia che tutto avvenga, come previsto, alle sue spalle.
Raccogliere una manciata di panni lavati intricata e instabile; sistemare lo stendipanni verso corretta esposizione solare; sorprendersi per una bugia di vento marino che sembra arrivare fin qui.
La stenditura non è un atto materiale come sembra in apparenza, ma un esercizio spirituale. Un rimasuglio di maschilismo mi aveva invece sempre portato a guardare con meraviglia la traslazione magica lavatrice-armadio dei panni lavati. Poi una serie di minacce amorose ha reso inevitabile fare i conti con la questione “lavanderia”, e con il trascurato orpello della stenditura. Era una faccenda che ormai andava affrontata in prima persona. Così, eccoci qua sul terrazzo alle sei e mezza del mattino, a guardare le villette a schiera addormentate tutte uguali; nessuno ancora in giro e quasi impercettibile il rumoreggiare bianco e piatto dell’autostrada.
La stenditura, affinché diventi ristoro efficace per l’intelletto, va assolutamente sbrigata di prima mattina e dev'essere una pratica solitaria, per consentire ai pensieri intorpiditi di snocciolarsi uno dopo l’altro, di proiettarsi in avanti nella programmazione rettilinea del giorno. Dopo, ogni cosa si guasta. Bisogna uscire, buttarsi nel traffico, la metro poi è una camera a gas collettiva: e i pensieri poco prima ordinati si spiegazzano tutti, si confondono, spariscono nell’irrompere confuso della realtà.
Primo Paradosso: su FB quasi nessuno cerca un dialogo reale, ma soltanto in pochissimi rispondono al racconto dell’altro con un pezzo complementare di vita o di storia (di solito accade solo con "gruppi" di amici che già pre-esistono nella realtà). Siamo voyeur che attendono soltanto di spiare il sentimento altrui. Nessuno racconta, tutti eroticamente osservano.
Altro paradosso: non appena mi decido finalmente ad abitare la storia così a lungo incubata, ecco che se ne affaccia una nuova. Non è un problema di mediocrità, ma di distrazione.
Raccordo (e un biglietto ritrovato)

Rischiano di saltare le righe, le settimane e finanche i mesi. Non scrivevo più perchè stento a rialzare la testa dalle corse quotidiane per/da Milano, dal vortice inatteso dell’impegno (è giusto impegnarsi, contribuire, mettersi in gioco, ma non pensavo fino a questo punto: lasciatemi stare un secondo, che devo trovare il tempo per scrivere quella cosa che ho promesso a Luca, riparare la macchina, schedare saggi, riscrivere per la sesta volta in tre anni gli appunti della tesi...). Eccolo, arriva lo scoramento, ma va – mi dico – aspetta un attimo, basta incasellare tutto. Tra le altre ansie e reprimende autoinflitte c’è quella di trovare qualche giorno libero (?!) per portare la famiglia a Parigi, a trovare i Rigattieri (i Rigattieri a Parigi?! Ancora non ci posso credere...). Allora, per rompere il silenzio e il circolo vizioso che inevitabilmente conduce alla resa, ho pensato di scrivere questo post un po’ sgangherato, veramente privo di senso se non quello di colmare un buco in attesa che venga qualcos’altro. E poi, ecco vedi che me lo stavo già dimenticando, domenica sera ho ritrovato un biglietto del Capo in uno dei quaderni di appunti. La scenografia nella quale fu composto era il palazzo della Carovana. Il testo, più o meno, recitava così: “Happy, dove cazzo sei?! A studiare!”
“... macché riposati. È la testa che non si ferma mai”.
Ieri sera, salendo insieme le scale di un lunedì sera, così borbottò rauco e amaro il capofamiglia, con le figlie sparse qui e là, indipendenti, e l’idea fissa di una casa diroccata sull’orlo aspro di una montagna. E gli unici baluardi contro la corrosione del presente e degli anni – i ricordi della gioventù fra i portici e il mercato, i matrimoni del paese, i carri dei narcisi di ferragosto – trasformati in un incubo, in spazi inaccessibili per sempre agli occhi e all’immaginazione.
Luoghi d’antico sangue sono stati spazzati via da una corrente d’aria invisibile, che ha sbriciolato pareti di cartapesta. La distruzione ha lasciato un vuoto angoscioso, una bolla d’aria che blocca il libero circolare dei pensieri; e un rumore continuo di immagini. Per il sottoscritto, erano paesaggi ormai adottati. Soprattutto la città delle cannelle, che avevo scoperto soltanto l’estate scorsa, a causa di un’indolenza ottusa e rancida che a volte paralizza le azioni più semplici. Oggi la mente non riesce a superare la barriera del passato, a considerare ciò che resta: la sensazione più insana e dolorosa è la certezza dell’irreversibilità, di non poter tornare indietro, al principio, all’istante prima del tuono.
Ipotesi che non ho preso in considerazione


Uno. Piero Colaprico raccontava convinto, nell’estate 2008, che lo scrittore dev’essere preferibilmente giovane, coraggioso e in buona condizione fisica. Sembrava un ritratto piuttosto strano. Lui allora chiariva meglio dicendo che la difficoltà maggiore nello scrivere un romanzo è nella riserva di energie fisiche necessarie per: stare lunghe ore seduti; tenere i gomiti piantati sul tavolo; resistere ai crampi delle mani (o delle dita, se siete bestie scriventi sulla tastiera); mantenere la concentrazione; riprendere in mano le pagine, correggere, buttare, ricominciare...
Due. L’altra mattina il ragazzo e il bimbo stavano chiusi in bagno: il ragazzo al lavandino per finire di prepararsi, il bimbo per terra, seduto sopra un tappeto. Il silenzio arrivava con la medesima forza della luce cruda e tersa della mattina. Il ragazzo rimugina sugli stratagemmi di lavoro e convenienza indispensabili per sopravvivere. Il bimbo inserisce elastici multicolori per capelli dentro un barattolo trasparente. I movimenti di entrambi sono tesi al massimo della concentrazione. Due persone arrovellate su pensieri e gesti ossessivi, ma radicalmente lontani e isolati. Nessuno dei due sapeva più se l’altro era ancora presente.
Tre. La procedura domestica porta a scoperte inquietanti. L’evento minimo trasla in rivelazione quando il meccanismo si ripete identico sotto i nostri occhi ogni giorno. Preparare il latte, per esempio. Non so se capita solo a me, ma è praticamente impossibile evitare a una goccia di cadere fuori dalla tazza. Succede però in maniera imprevista: quando si versa dalla bottiglia alla tazza, oppure nel tragitto verso il tavolo, per non parlare di quando si inzuppano i biscotti. È indecente: almeno una goccia scappa sempre, puntuale, ogni stramaledetto giorno, al controllo più minuzioso. La ripetizione apre le porte alla legge del caos.